Il rebranding dell’Università di Catania: il nuovo look calza un po’ stretto? L’intervista a Simone Tornabene

Il rebranding dell'Università di Catania

L’Università di Catania cambia logo e cambia l’immagine con cui vuole presentarsi ai suoi stakeholder: inaugura il nuovo anno accademico con il lancio di una nuova identità visuale.

Questo restauro-restyling-cambiamento-trasformazione-rinnovamento, insomma questa scelta – voluta dal rettore e dagli organismi al vertice dell’Università – ha diviso le opinioni tra chi ha considerato sbagliata la scelta già a monte, chi ha aspramente criticato il risultato finale e chi, invece, ne ha apprezzato l’audacia.

Prima di capire dove stia il problema, e se un problema in fin dei conti esista davvero, facciamo un passo indietro.

 

Il rebranding dell'Università di Catania

Già nel 2019 il consiglio di amministrazione aveva espresso la volontà di rinnovare la brand identity dell’università di Catania e nel febbraio del 2021 l’azione è stata concretizzata.

A firmare il progetto è l’agenzia di comunicazione milanese Imille e una precisazione appare doverosa: il logo realizzato dall’agenzia non andrà a sostituire completamente l’antico sigillo ma lo affiancherà.

L’obiettivo è, infatti, quello di far apparire l’Università come una realtà attenta alle novità e capace – seppur ancorandosi alla tradizione – di stare al passo con i tempi. Il logo storico resterà in uso nei documenti ufficiali e nelle cerimonie protocollari, il nuovo logo invece sarà protagonista nei contesti che richiedono un’immagine più innovativa e moderna.

Il rebranding dell'Università di Catania

Una necessità quindi o una volontà dell’Università essere più vicini ai gusti e allo stile degli studenti?

Quali sono stati gli obiettivi che l’agenzia si è prefissata ad inizio progetto? Questi obiettivi sono stati raggiunti? Abbiamo posto qualche domanda a Simone Tornabene, Partner ed Head of Strategy dell’agenzia Imille:

Come siete stati scelti per occuparvi del rebranding e che valore ha avuto poter lavorare per un’istituzione pluricentenaria come quella dell’Università di Catania?

“Come per tutti i lavori legati alla pubblica amministrazione, abbiamo preso parte a una procedura aperta dall’Università sul MEPA, il sistema che viene usato dalle pubbliche amministrazioni per ricevere offerte su lavori e forniture. Trattandosi dell’Università di Catania, di cui io sono stato studente nel quinquennio 2003-2009, abbiamo deciso di offrire i nostri servizi, come Imille.”

La motivazione dietro la nostra scelta non è stata economica, sappiamo bene che qualsiasi lavoro per il pubblico è remunerato molto molto meno rispetto al mercato, almeno per i servizi che offrono agenzie come la nostra. Però da un lato c’era una molla emotiva, mia e degli altri che in agenzia hanno studiato a Catania. Dall’altro non capita affatto spesso di lavorare al rebranding di una organizzazione così antica, perché in Italia tendiamo a privilegiare molto, forse troppo, lo status quo.

In molti hanno contestato la scelta, asserendo che un’agenzia locale avrebbe potuto meglio valorizzare gli elementi storici e culturali dell’Università e del territorio catanese. È realmente stato un limite? Ci sono state delle criticità?

“Questa è una critica che respingo completamente perché si tratta infatti di un pensiero infondato. Per due motivi: il primo è che il lavoro dell’agenzia è sempre quello di assorbire storia e contesti del cliente per esprimere una proposta. Le agenzie lavorano per chi produce pannolini e automobili, allo stesso tempo. Il secondo motivo è concettuale: la differenza fra saper cucinare un arancino e non saperlo fare, non è essere nati in Sicilia. Ma aver studiato e imparato a farlo.”

“Chi nasce in Sicilia è avvantaggiato? A volte sì, a volte no: essere immersi in qualcosa, troppo vicini a qualcosa, non è sempre un vantaggio. La verità storica è che dalle commistioni di vicino e lontano nascono le grandi cose: come per il cioccolato di Modica che consideriamo vessillo della Sicilia oppure il pistacchio di Bronte.”

“Entrambi arrivano da mondi lontani e sono stati “adottati” dal nostro. L’idea che solo chi nasce in una cultura possa padroneggiarla e rappresentarla, è un mito. Solo chi si innamora e ama una cultura, è degno di rappresentarla e padroneggiarla. Anche perché la cultura non è un sapere che viene tramandato da una generazione all’altra. Ma il modo in cui le differenti generazioni accolgono, interpretano e usano quel sapere.”

Quanto ha influito e aiutato nel progetto l’esperienza e il legame di un ex studente con l’università di Catania?

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“Io mi occupo di strategia di comunicazione (sono docente di Communication Strategy e Media Planning all’Università IULM di Milano), l’identità visuale è stata progettata da un team di professionisti dell’agenzia, guidato da Matteo Roversi, insieme al team dell’Università di Catania che ha seguito il progetto.

Io sono rimasto a disposizione, come tutti i catanesi (docenti, studenti, ex studenti) coinvolti nel progetto.

Chiaramente il legame con la mia città e la mia ex Università è stato piuttosto per me motivo di fierezza, nel poter restituire al territorio qualcosa delle esperienze apprese. Credo di essere uno dei tanti buoni esempi di «Ovunque da qui» (che è il concept della campagna progettata come parte del lavoro svolto), grazie anche a quello che l’ateneo e la Scuola Superiore di Catania mi hanno permesso di apprendere.”

Come nasce questo nuovo logo? Quali sono stati gli elementi chiave che vi hanno guidati durante la progettazione?

“Questo logo nasce come parte di un’identità visuale che ha esplorato gli elementi iconici della città e della storia dell’Università. Una storia che spesso la maggior parte di noi non conosce e che è conservata in manoscritti e documenti vecchi di secoli. La base del lavoro è il legame forte fra città e università, sia nel tempo (da cui la valorizzazione dell’elefante, uno dei simboli della città), sia nello spazio (da cui la valorizzazione dei colori scelti, che richiamano il paesaggio).

Tutte le scelte sono racchiuse in un sito dedicato (www.brand.unict.it) che racconta la nuova identità visiva. Abbiamo cercato di trovare il bilanciamento che riteniamo migliore fra storia e futuro: cosa pensiamo che significhi essere un’Università, nel mondo, nel XXI secolo.”

“Tradizione e innovazione”: rinnovare l’immagine dell’Università pur non sminuendone l’istituzionalità e la storia. È stata una sfida? Come l’avete affrontata?

“L’equilibrio fra Tradizione e Innovazione è sempre una sfida e sicuramente le risposte a questa sfida possono essere molte, non ce n’è una sola giusta. Il punto di partenza è riconoscere che la dicotomia fra Tradizione e Innovazione è solo apparente: quello che chiamiamo Tradizione è solo una «Innovazione che ce l’ha fatta».

Così quello che siamo abituati a pensare come Tradizione, ad esempio il sigillo, è di per sé la fusione di elementi dalla genesi diversa, che piano piano si sono fusi abbastanza casualmente e per motivi contingenti, nei secoli.

Il cioccolato di Modica che ho citato precedentemente è un altro esempio: baluardo della tradizione, è un’innovazione fra le più radicali: fonde ingredienti e tecniche “rubate” dagli spagnoli agli aztechi con conoscenza locale. Molte delle cose che consideriamo tradizionali in Sicilia sono simboli di dominatori che sono venuti a imporre i loro usi e costumi.”

I vari elementi che compongono il pittogramma, pur se ben legati tra loro nel disegno finale, non vengono colti da tutti: unire così tanti elementi rischia di far arrivare un messaggio poco comprensibile e fuorviato? Sarebbe stato più funzionale tralasciarne qualcosa per comunicare in maniera più diretta?

“Il pittogramma proposto è una radicale semplificazione del sigillo che veniva impropriamente utilizzato come logo, in un mondo dove esistono i social media e gli smartphone, come elemento quotidiano di interazione con un’istituzione.

Francamente fatico a comprendere come l’attuale pittogramma proposto possa essere visto come un peggioramento rispetto all’utilizzo del sigillo come logo, quando il sigillo ha molti più elementi, tra loro confusi e disarticolati.

Chiaramente qualsiasi logo, oltre la sua immediatezza, richiede una “scoperta”. Anche loghi molto semplici e accessibili possono avere vari livelli di lettura, in funzione della conoscenza della loro genesi. Un po’ come passeggiare per piazza università e apprezzare quattro bei lampioni, realizzati da un ottimo artista. Oppure vedere quei quattro candelabri e identificare quattro leggende che raccontano Catania.”

Il rebranding dell'Università di Catania

Guardando ancora al pittogramma, qualcuno percepisce lo sguardo del Liotru come arrabbiato, qualcuno come determinato o tenace. Andiamo nel dettaglio e sfatiamo un mito: cosa vuole comunicarci quell’occhio?

“Preferisco sfatare un altro mito: che chi disegna un’identità abbia il controllo totale della storia che questa racconta.

Un po’ come la lettera “A” sopra l’elefante, nel sigillo dell’Università di Catania: chi la disegnò per primo (innovando) diede per scontato che sarebbe stata la sostituta di Atena, che precedentemente veniva disegnata a cavallo dell’elefante.

Eppure oggi, quasi tutti giurerebbero che quella lettera si riferisca ad Agata, l’amata patrona della città. Qualsiasi “cosa” che comunica è codificata e decodificata.

Il significato non è un’operazione che coinvolge solo chi codifica. Quindi non ci resta che concludere che l’occhio è sia arrabbiato che tenace. Ma di base resta un occhio.”

In molti lamentano la “banalità” dell’equazione: Catania = Liotru. L’università di Catania poteva essere rappresentata in altro modo?

“Secondo me semplicità non deve essere confusa con banalità. L’associazione Catania = Liotru è semplice oggi. La fontana dell’Elefante in piazza Duomo è del XVIII secolo. Il liotru come simbolo della città è documentato a partire dal XIII.

Ma la fondazione di Catania viene datata nell’VIII secolo… avanti Cristo! Quindi l’equazione Catania = Liotru è una storia molto recente, cosa che spesso chi parla di simboli e tradizioni tende a trascurare. Si poteva scegliere l’Etna?

Ma l’Etna non è patrimonio esclusivo di Catania, coinvolge decine e decine di nuclei abitati.

Poi la scelta di un animale come simbolo di un’istituzione è parte di una pratica internazionale di matrice anglosassone. Una pratica che oggi si è evoluta oltre andando verso le singole lettere (si pensi ai loghi di Università come la Bocconi Milano o la Sorbonne a Parigi).

Secondo noi la scelta dell’Elefante è il giusto equilibrio fra storia e modernità, nel mondo del XXI secolo in cui la Sicilia vuole rappresentare un’opzione di futuro, non soltanto una bella storia che profuma di passato. Potevamo scegliere altri simboli primari? Certo, tutto è possibile.

Ma il logo che vediamo è il vincitore di circa 100 versioni su 3 strade principali che abbiamo esplorato.

E posso garantirvi che il lavoro del team Imille e dell’Università di Catania è stato molto rigoroso. Considerando tutti gli aspetti di cui tenere conto (da dove veniamo, ma anche dove stiamo andando) la scelta finale è senza dubbio alcuno la migliore.

Poi, “mio cugino con 30 euro lo faceva meglio” o “in due ore con photoshop facevo lo stesso” sono perle intramontabili che accompagnano qualsiasi rebranding (basta leggere i commenti a quello di Enel nel 2016 o della Juventus nel 2017).

Il font principale l’abbiamo particolarmente gradito: è moderno ma elegante e, in qualche modo, rimanda un’idea di innovazione senza perdere d’occhio la tradizione. Un po’ di perplessità in più le nutriamo per il font dell’anello. Cosa ha dettato la scelta dei font e il loro utilizzo?”

Il rebranding dell'Università di Catania

“Sicuramente le applicazioni. Un font sans-serif come quello dell’anello garantisce migliore flessibilità considerando le applicazioni del logo che devono andare bene da una busta da lettere e a un account Instagram visto da mobile. Questo è il nocciolo della questione: il gusto o il gradimento sono importanti ma non sono il motivo per cui dovrebbero venire prese le decisioni. Le buone decisioni non servono ad intercettare una preferenza della massa ma a strutturare una preferenza in una realtà che cambia.

Devono intercettare il futuro, non certificare il passato. Del resto se nel 2007 Steve Jobs avesse prodotto un cellulare che incontrava i gusti della massa, non avrebbe fatto un iPhone. Eppure oggi non abbiamo dubbi su chi avesse ragione fra lui e i suoi (innumerevoli) detrattori.”

Il nuovo logo non verrà utilizzato nei documenti ufficiali ma soltanto nella comunicazione. Affiancare il logo ad un sigillo istituzionale rischia di confondere le idee o contribuirà a rinsaldare e rinnovare l’immagine dell’Università?

“Ovviamente secondo noi la seconda. Personalmente mi auguro anche che con il tempo il nuovo logo diventi così istituzionale da bastare a trasmettere il senso di storicità dell’Università di Catania, senza scomodare gli Aragonesi (che restano amministratori di una colonia, non certo espressione rappresentativa della volontà di un popolo).”

Il logo, lo sappiamo, è solo una parte dell’identità di un marchio, come sarà la nuova immagine dell’Università di Catania? Cosa cambierà rispetto al passato?

“Basta fare un giro su https:/www.brand.unict.it/applicazioni per avere un’idea. Abbiamo pensato a svariate applicazioni, tra cui il merchandising. Personalmente credo che questo sia il senso più importante di un’identità visiva: non solo documenti o cerimonie, ma la capacità di entrare nel quotidiano di decine di migliaia di persone. La domanda che non ho visto nessuno fare è: indossereste mai una felpa blu con il sigillo storico sopra? Non credo.

La nostra ambizione è quella di costruire un’identità viva che possa essere “brand” nel senso più pieno del termine: rappresentare le migliaia di storie individuali che compongono la storia di un’organizzazione che è anche una comunità. Il tempo dirà se ci saremo riusciti, non certo Facebook.”

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